Il fisco ricostruisce il reddito di una «lucciola» con sei case e due auto
MILANO — Anche le prostitute devono pagare le tasse. È il succo, portato alle estreme conseguenze, della prima sentenza tributaria in Italia sulla materia. Ad emetterla è stata la Commissione tributaria della Lombardia che ha condannato una prostituta proprietaria di sei appartamenti e di due auto a pagare quasi 70 mila euro tra tasse e sanzioni perché non ha dimostrato documenti alla mano la provenienza del suo reddito. I controlli del Fisco si fanno via via più sofisticati. Incrociando i dati sulle compravendite di case, l'Ufficio «Milano 3» dell'Agenzia delle entrate due anni fa si accorse che M.L. era intestataria di un lussuoso appartamento di 130 metri quadri in pieno centro a Milano, di altri due monolocali in città, di due case di tre stanze a Corsico e di una a Baggio. Due autovetture completavano un patrimonio di tutto rispetto che i detective del fisco valutavano in un miliardo e 605 milioni e che non compariva, o c'era solo in parte, nelle dichiarazioni della signora. L'agenzia calcolò che i redditi della contribuente ammontavano attorno a 98 mila euro per il 1998 e a 87 mila euro per l'anno successivo. A conti fatti, M.L. doveva pagare 68.277,67 euro. La donna confessò di non avere i soldi per pagare. Dopo aver fatto per venti anni il mestiere più antico del mondo, superati i 40 si era ritirata dall'attività. Fece ricorso alla Commissione tributaria provinciale. Per dimostrare di essere stata una prostituta, il suo avvocato raccontò la storia di una ragazza fuggita a 17 anni dalla Campania e che, dopo essere finita sulla strada, era riuscita a comperare un monolocale per intrattenere i clienti in modo più riservato e sicuro. Essendosi sempre gestita da sola e non avendo mai avuto un protettore, aveva potuto accumulare un discreto gruzzolo che aveva diligentemente investito nel mattone.
Oggi vive in agiatezza grazie agli affitti che pagano gli inquilini delle sue case. Il legale aveva quindi prodotto le inserzioni con le quali sui giornali M.L. aveva negli anni messo in vendita il corpo e le bollette telefoniche. I giudici di primo grado le diedero ragione sostenendo che i guadagni della prostituzione «non possono essere considerati tecnicamente redditi» perché non sono collocabili né tra le attività illecite, né tra quelle lecite. Secondo la Cassazione, inoltre, i proventi dal meretricio sono una «forma di risarcimento del danno» che, vendendo se stessa, la donna subisce alla sua dignità. Come tali non possono essere tassati. Sentenza ribaltata in appello. Le motivazioni della Commissione tributaria regionale — anche se non affronta in modo diretto il tema dei guadagni da prostituzione — partono dal presupposto che la M.L. ha avuto comunque un reddito (che lei ha dimostrato provenire dal suo lavoro di lucciola). Esso è quello «presunto» calcolato dall'Agenzia delle entrate. M.L. ha «chiaramente provato (...) quale era la sua attività negli anni, non ha però provato né quale era o poteva essere l'ammontare delle somme da lei percepite, né le somme da lei spese» perché «non ha prodotto una documentazione idonea», scrivono i giudici. Se l'avesse fatto, si sarebbe potuto stabilire con esattezza il suo reddito e forse avrebbe pagato meno.
Oggi vive in agiatezza grazie agli affitti che pagano gli inquilini delle sue case. Il legale aveva quindi prodotto le inserzioni con le quali sui giornali M.L. aveva negli anni messo in vendita il corpo e le bollette telefoniche. I giudici di primo grado le diedero ragione sostenendo che i guadagni della prostituzione «non possono essere considerati tecnicamente redditi» perché non sono collocabili né tra le attività illecite, né tra quelle lecite. Secondo la Cassazione, inoltre, i proventi dal meretricio sono una «forma di risarcimento del danno» che, vendendo se stessa, la donna subisce alla sua dignità. Come tali non possono essere tassati. Sentenza ribaltata in appello. Le motivazioni della Commissione tributaria regionale — anche se non affronta in modo diretto il tema dei guadagni da prostituzione — partono dal presupposto che la M.L. ha avuto comunque un reddito (che lei ha dimostrato provenire dal suo lavoro di lucciola). Esso è quello «presunto» calcolato dall'Agenzia delle entrate. M.L. ha «chiaramente provato (...) quale era la sua attività negli anni, non ha però provato né quale era o poteva essere l'ammontare delle somme da lei percepite, né le somme da lei spese» perché «non ha prodotto una documentazione idonea», scrivono i giudici. Se l'avesse fatto, si sarebbe potuto stabilire con esattezza il suo reddito e forse avrebbe pagato meno.
Giuseppe Guastella
22 novembre 2007
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